Di Lidia Borzì, Presidente Acli Roma
«…Anche noi viviamo i problemi del quartiere, esattamente come gli italiani: ma ora non possiamo dormire, non viviamo più in pace, abbiamo paura. Non possiamo tornare nei nostri Paesi, dove rischiamo la vita, e così non siamo messi in grado nemmeno di pensare al nostro futuro».
«…Noi siamo un gruppo di rifugiati, 35 persone provenienti da diversi Paesi: Pakistan, Mali, Etiopia, Eritrea, Afghanistan, Mauritania, ecc. Non siamo tutti uguali, ognuno ha la sua storia; ci sono padri di famiglia, giovani ragazzi, laureati, artigiani, insegnanti… ma tutti noi siamo arrivati in Italia per salvare le nostre vite. Abbiamo conosciuto la guerra, la prigione, il conflitto in Libia, i talebani in Afghanistan e in Pakistan. Abbiamo viaggiato, tanto, con ogni mezzo di fortuna, a volte con le nostre stesse gambe; abbiamo lasciato le nostre famiglie, i nostri figli, le nostre mogli, i nostri genitori, i nostri amici, il lavoro, la casa, tutto. Non siamo venuti per fare male a nessuno».
«…Siamo qui per costruire una nuova vita, insieme agli italiani, immaginare con loro quali sono le possibilità per affrontare i problemi della città uniti insieme e non divisi».
Mentre lo scorso 4 dicembre ero in piazza del Campidoglio con la mia fiammella accesa, durante la fiaccolata per “Roma città aperta, sicura, inclusiva”, di cui siamo stati co–promotori, mi riecheggiavano più o meno precisamente queste parole che avevo letto e riletto nei giorni precedenti, scritte dagli immigrati vittime di episodi di intolleranza scoppiati prima a Tor Sapienza, poi all’Infernetto e in altre zone della città.
Oggi più che mai non posso credere che conoscendo queste storie, i romani possano veramente gridare contro queste persone di andarsene.
Credo che le rivolte delle periferie siano state strumentalizzate e che siano frutto dell’esasperazione della gente.
Non posso credere che stia scomparendo il tradizionale spirito di accoglienza della nostra città culla della cristianità.
Un’iniezione di fiducia è stato già trovarci in tanti quella sera alla fiaccolata, dopo aver lavorato ad un documento condiviso proprio per richiamare l’attenzione su questa grave situazione, che ha messo insieme CGIL, CISL, UIL, ACLI, ARCI, Centro Astalli, CNCA, Comunità di Sant’Egidio, Forum Terzo Settore, Libera, Fondazione internazionale Don Luigi di Liegro e Social Pride di Roma e Lazio: in sostanza una rete composta da tante anime, con forze sociali, associazioni laiche e altre di ispirazione cristiana, che partendo da ancoraggi valoriali e culturali differenti, ha trovato un comune denominatore nella promozione della dignità della persona e nella volontà di avviare una forte azione condivisa per rilanciare l’anima sociale e accogliente della nostra città, valorizzando le reti di prossimità che contribuiscono quotidianamente a costruire coesione sociale e fiducia reciproca.
Ma dicembre si è aperto anche con l’inchiesta “mafia capitale”, che chissà quante altre cose terribili farà emergere. Un vero e proprio terremoto politico, che ci lascia molto scossi e preoccupati per il futuro delle politiche in favore degli immigrati e non solo.
C’è il rischio che le vicende politiche e giudiziarie di questi giorni, facciano dimenticare un’altra volta le periferie mentre abbiamo il compito di lasciare accesi i riflettori su quei luoghi che non possono essere la risulta della città e non possono nemmeno rientrare nella logica di interventi spot e frammentati, che risolvono un problema ma, magari, ne creano un altro. Servono azioni strutturate, organiche e di ampio respiro.
Siamo convinti che quello delle periferie non sia un mero problema di sicurezza, da affrontare in maniera repressiva. Piuttosto un tema che afferisce alle politiche di sviluppo territoriale prima ancora che sociali, e quindi ci interpella tutti, Istituzioni, società civile e cittadini che hanno a cuore il futuro della città.
Non possiamo rassegnarci al degrado ed all’impoverimento progressivo delle periferie, lasciando indietro le persone più fragili.
E’ necessario abbinare alla riflessione politica e culturale anche proposte concrete come ad esempio:
– riqualificare le periferie innanzitutto attivando dei compensativi per portare un valore aggiunto al quartiere. Dove arrivano delle situazioni più difficili e faticose da gestire per il quartiere, quale può essere un centro per rifugiati o immigrati, portare anche dei miglioramenti strutturali che valorizzino la vita di quartiere.
– coinvolgere direttamente gli immigrati ospiti che potrebbero dare un po’ del loro tempo per migliorare il quartiere in cui vivono, magari insieme agli abitanti.
Perché attraverso la conoscenza e la reciproca immedesimazione si costruisce una comunità accogliente e solidale.
Dobbiamo vincere la paura di ciò che non conosciamo.
D’altra parte, anche Gesù di Nazareth, a Betlemme, era un forestiero e il Natale, in cui facciamo memoria della sua venuta al mondo, non a casa, è la festa dell’accoglienza per eccellenza.
Abbiamo un eccellente testimone di accoglienza vicino a noi: Papa Francesco. E se lui mette le docce a San Pietro, noi abbiamo il dovere di dare seguito a questo gesto dimostrando il volto umano e solidale della città che è la capitale del paese.
Auguri, allora, per un Natale veramente accogliente, dove mettere al centro i valori più autentici e sentirci tutti un po’ più fratelli.