Il lavoro oggi non basta più a garantire una vita dignitosa, il grido di allarme delle ACLI di Roma.
Quasi un terzo degli occupati italiani – oltre il 28% – si trova in una condizione di fragilità economica. È quanto emerge dalla recente ricerca promossa da IREF, CAF ACLI e ACLI nazionali: una fotografia lucida e inquietante che ci consegna una verità scomoda. Anche chi ha un impiego, spesso, non riesce a soddisfare i propri bisogni fondamentali. Il lavoro povero non è un’eccezione: è diventato sistemico, strutturale, e coinvolge fasce sempre più ampie della popolazione.
Si lavora, ma si resta poveri. Si fatica, ma non si costruisce futuro.
A farne maggiormente le spese sono le donne, relegate più spesso in impieghi instabili e sottopagati. Sono i giovani, costretti a rincorrere contratti precari e prospettive evanescenti. Sono le persone che vivono penalizzate da un mercato del lavoro diseguale e selettivo, spesso insicuro, a volte mortale.
Una situazione che incide tantissimo sulla qualità di vita della Capitale nella quale, caroaffitti e carovita rappresentano le principali motivazioni di fuga dalla città.
Non sono solo disuguaglianze economiche. Sono disuguaglianze di genere, territoriali e generazionali, che si intrecciano e si rafforzano, alimentando un senso diffuso di esclusione.
Una società in cui il lavoro non emancipa, ma intrappola, uccide è una società che deve fermarsi a riflettere.
Anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ricorda con forza che “le questioni salariali sono fondamentali per la riduzione delle disuguaglianze, per un equo godimento dei frutti offerti dall’innovazione, dal progresso. Tante famiglie non reggono l’aumento del costo della vita. Salari insufficienti sono una grande questione per l’Italia”.
Ed è proprio in mezzo a questa crisi di senso e di giustizia che sentiamo il bisogno di tornare alla radice più profonda del lavoro.
Non un ingranaggio, non una prestazione, non una statistica. Ma una vocazione, un impegno umano e comunitario, capace di creare legami e generare futuro.
A indicarci questa direzione, ancora una volta, è Papa Francesco, che con parole semplici e potenti, che ha dedicato con due lettere in occasione della seconda e terza edizione del LaborDì delle ACLI di Roma, ha saputo restituire al lavoro la sua dimensione più autentica: quella relazionale, creativa, profondamente umana.
“Quando il lavoro viene organizzato senza cuore, è in pericolo la dignità umana di chi lavora, o non trova lavoro, o si adatta a un lavoro indegno. Oggi è l’economia stessa ad accorgersi che il saper fare non basta, che le prestazioni non sono tutto. A questo basteranno sempre più le macchine. Umana, invece, è l’intelligenza del cuore, la ragione che sente le ragioni altrui, l’immaginazione che crea ciò che ancora non è, la fantasia per cui Dio ci ha resi tutti diversi. Siamo pezzi unici, aiutiamoci a vicenda a ricordarcelo”.
Parole che ci parlano di un lavoro che non si misura solo con il metro dell’efficienza, ma con la capacità di costruire umanità, fiducia, amicizie, comunità.
Parole che, soprattutto nell’Anno Santo, risuonano come un programma, una chiamata, una speranza.
La recente salita al cielo di Papa Francesco, proseguono le ACLI di Roma, ci ha colti nel cuore, come credenti e come comunità. È un dolore che si fa silenzio, memoria, preghiera. E proprio per questo, questa “Festa dei Lavoratori” assume un valore ancora più profondo.
Perché il Papa ci ha indicato un cammino possibile, anzi necessario: quello del lavoro buono, del lavoro che non umilia ma libera, che non divide ma unisce, che non sfrutta ma costruisce.
Per noi, concludono le ACLI romane, il Primo Maggio non è solo una celebrazione.
È una scelta di campo.
È un impegno quotidiano per un lavoro che sia davvero per tutti, che sia davvero umano.
Un lavoro che non lasci indietro nessuno.
Un lavoro che metta al centro la persona, e la sua capacità di generare relazioni, fiducia, solidarietà.
Un lavoro che sia, finalmente, degno, tutelato, sicuro e stabile.