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Non solo ombre

La crisi pandemica che ha investito il nostro Paese e l’intero mondo, nei suoi risvolti sanitari e sociali, ci obbliga ad uno sguardo conclusivo su questo 2020 che non può essere ordinario e rituale.

La prima osservazione da fare è questa. Il COVID-19 molto ci ha tolto, in termini di vite umane anzitutto, ma anche in termini di perdita di posti di lavoro e di normalità e quotidianità, però ci ha riservato insospettate opportunità di rivedere e riprogettare il nostro modo di stare insieme.  In sintesi: ci ha impartito una lezione di vita che sta interessando contemporaneamente milioni di persone in tutto il mondo. Si è imposta una seconda globalizzazione, nella quale non ha deciso il mercato, ma la biologia, non i grandi numeri dell’economia, ma la infinitesimale presenza di un virus invisibile che sta tenendo sotto scacco gli abitanti del pianeta, ovunque. Tutti nella stessa barca, o meglio ancora tutti nella stessa tempesta, perché la malattia ci ha reso uguali nella esposizione al rischio, ma  diseguali nelle condizioni di partenza e nelle opportunità di uscirne.

Ne usciremo comunque cambiati, anche se non ancora pienamente consapevoli della profondità e radicalità del cambiamento, e soprattutto della direzione del nostro futuro, come singoli e come società.

Questo annus horribilis è perciò anche un anno che –obbligandoci a sopportare, direi sulla nostra pelle, la tensione di un rischio quotidiano- ci costringe a riesaminare la nostra scala di valori, le nostre priorità, in una parola il nostro modello di vita sociale ed economico. Una sorta di esame di coscienza collettivo dal quale usciremo senz’altro mutati, anche se non necessariamente e automaticamente migliori.

Questo tornante storico, irto di difficoltà e di inedite sfide, ci impone un paio di ‘occhiali nuovi’ per vedere, discernere, valutare e scegliere, in quanto persone appartenenti ad una comunità. Non solo ombre,  ma anche luci da accendere sull’asfalto per acquistare una visione più ampia e più lontana, come facciamo viaggiando di notte in una strada sconosciuta. E’ necessario mappare questo nuovo orizzonte che si spalanca, individuando alcune parole-chiave che ci aiutino a non smarrire la rotta. Con l’avvertenza che non siamo sulla via di un ritorno a “come eravamo”, ma di un’andata verso nuovi equilibri  e nuove polarità, tra economia e benessere, persone e comunità, diritti civili e doveri di cittadinanza, giovani e anziani, genere umano e pianeta. E potremmo continuare.

La prima di queste parole-chiave ce l’ha suggerita papa Francesco con la sua ultima enciclica “Fratelli tutti”: fraternità. Ritrovarsi nello stesso dramma è già fare esperienza di essere fratelli. Ma la fraternità diventa un valore solo se da questa circostanza non voluta nasce la scelta di vivere solidaristicamente il male comune. Non ci dobbiamo accontentare del “mezzo gaudio” che – come ricorda l’antico proverbio – produce una consolazione un po’ cinica. La scelta della solidarietà è faticosa, impegnativa, chiede di fare un salto nella nostra coscienza di appartenere alla stessa famiglia umana. La fede ce ne offre la motivazione più radicale, ma l’appello a riconoscersi fratelli riguarda tutti  (e il titolo dell’enciclica lo ricorda), cristiani e appartenenti ad altre fedi, credenti e non credenti, cattolici e laici. La fraternità si traduce in solidarietà quando diventa operosa, coniugando valori e azioni, una visione illuminata dai gesti e una concretezza animata dagli ideali.

La seconda parola-chiave è generatività.

La pandemia ci ha messo di fronte all’inedito, anzi all’inaudito. Tutto è diventato improvvisamente vecchio, superato, appartenente ad un “prima“ che è andato rapidamente perduto. Di qui il bisogno di risposte generative, che facciano scaturire dalla crisi nuove opportunità di vita. In altri termini, risposte capaci di guardare al futuro, non limitate alle ricadute nell’immediato presente.

 Qui si profila il ruolo strategico del Terzo Settore, delle forme associate, della comunità che rinasce dal basso.  E’ questa la responsabilità specifica delle realtà associative, come le ACLI, che sono chiamate ad essere risorsa per ricostruire legami, appartenenze, esperienze di senso. Perchè questo possa avvenire è però necessario rimettersi in ascolto di quanto , anche in questo tempo apparentemente sospeso, viene maturando “fuori”. Guai a sentirsi un mondo separato, una riserva etica che segue logiche autoreferenziali, istinti di autoconservazione e di mera sopravvivenza.

La società che abbiamo chiamato “liquida” in questo ascolto attivo ci apparirà, anzi ci è apparsa al contrario resistente nei suoi bisogni fondamentali, essenziali, umanamente riconoscibili. Lo abbiamo toccato con mano nelle esperienze di prossimità sul territorio, per quanto ci riguarda nel territorio urbano e metropolitano di Roma: dalla chiusura degli spazi di socialità,  è riemersa la voglia di stare insieme, come suggeriscono i nomi stessi dei nostri progetti attivati per contrastare l’emergenza: distanti-ma-vicini, sicuramente-vicini, mai-soli. 

Dalla diffusione di un crescente stato di precarietà è nata l’invenzione di nuove forme di solidarietà , dall’isolamento coatto la ricerca di altri modi di vicinanza. Chi l’avrebbe detto, un anno fa, che gli studenti avrebbero manifestato per riavere la ‘loro’ scuola in presenza, o che la distratta vita familiare dispersa in mille attività esterne si sarebbe riscoperta come fonte primaria di legami e di significati?

Certamente, non staremo a negare anche la difficoltà di questo brusco restringimento di orizzonti, ma è altrettanto certo che la riscoperta dell’ essenziale nella (forzata) eclisse del superfluo, ci ha risvegliato dal sonno un po’ ipnotico del consumismo esasperato che ha segnato gli ultimi decenni, nel nostro mondo unificato dalle merci più che dai valori.

La terza parola-chiave è  sobrietà. La riscoperta di quello che rimane nella coazione di scegliere il necessario. Lo sguardo si deve allargare al nostro modello di sviluppo, ai nostri stili di vita. La sostenibilità è l’architrave della storia del pianeta nei prossimi anni. Ne deciderà le sorti insieme a quelle delle future generazioni.

La lezione della pandemia può e deve inaugurare il tempo del “noi” e della compatibilità dei bisogni e dei desideri, il tempo nel quale alla moltiplicazione dei beni di consumo si deve sostituire la condivisione del bene comune.

In questa vera e propria riconversione dello sviluppo, in cui modernizzazione e umanizzazione vadano finalmente a braccetto, un ruolo fondamentale, ancora una volta, lo può svolgere la società civile e l’economia che appunto è detta civile.

L’economia civile non demonizza il mercato, ma non è neppure “terza” in ordine di importanza nella classica contrapposizione tra quello e lo Stato. La triangolazione prodotta dal protagonismo dei soggetti della società civile, supera la contrapposizione e la ri-orienta nel senso che la ri-umanizza. La nuova economia, che dopo Assisi da sempre più parti si chiama “l’economia di Francesco”,  combatte le distorsioni del mercato indotte dalla finanza, lo sottopone al giudizio di valore  dell’umanesimo integrale, lo indirizza alla custodia dell’ambiente, ad un nuovo equilibrio tra specie umana e pianeta.

Equilibrio ambientale e giustizia sociale sono le due direttrici di futuro a cui ci spinge anche la lezione della pandemia. Ci ha investito l’esperienza di un mondo globalizzato DAL rischio, dopo quella di una società globale DEL rischio che avevamo conosciuto nella svolta degli ultimi decenni.

Ecco allora l’importanza della quarta parola-chiave. Vigilanza: parola squisitamente evangelica, ma che tradotta laicamente è capacità di cogliere nella società impaurita e sfiduciata -di cui la pandemia sociale è vistoso esempio-  i segni del mondo nuovo, nelle ombre di quello che va perduto le luci di una nuova storia. Ma per farlo occorre “rendere protagonisti i dimenticati”. Rimettere al centro la dignità di quelli che sono ai margini, dando loro voce e spazio, curare le ferite di un mondo malato di indifferenza, sconfiggere il virus dell’egoismo e della chiusura verso l’altro.

In questo compito è specifica e insostituibile la presenza del Terzo Settore. Il ruolo che possiamo e dobbiamo svolgere noi delle ACLI in quanto soggetti attivi della prossimità, deve essere  potenziato da uno stile di corresponsabilità, in cui a ognuno è chiesto di fare la propria parte.

E’ la vigilanza che ci rende capaci di futuro, non solo di aspettarlo ma di affrettarlo, di anticiparlo. Si tratta infine di essere  connessi con il nostro tempo, che non è il presente immediato e istantaneo ma la stagione delle nostre responsabilità, di cui le future generazioni ci chiederanno conto.

Il futuro è già qui, anche in questo difficile frangente storico. E’ sulla soglia del nuovo anno, per il quale ci auguriamo ogni bene possibile. Il bene che esiste e il bene che resiste, così come lo vediamo balenare  anche nelle ombre di un presente difficile.