Di Lidia Borzí, Presidente ACLI Provinciali di Roma
Prima gli zaini che tornano protagonisti sugli scaffali dei grandi supermercati. Poi il traffico che ricomincia a farsi più intenso dopo la pausa estiva: eccoci a settembre, da pochi giorni le campanelle nelle scuole della Capitale e di tutto il Paese hanno segnato l’avvio dell’anno scolastico…. tutti pronti allevi, docenti, genitori (anche se poi tanto pronti non sembriamo essere visto che oltre il 40% dei licei di Roma non rispetta le norme per la sicurezza e quasi la metà degli istituti superiori della Capitale è arrivata alla prima campanella senza i documenti richiesti dalla normativa sulla sicurezza). Ad ogni modo, circa 740mila studenti sono tornati sui banchi di scuola nel Lazio (divisi in 94.345 alla scuola per l’infanzia, 244.726 alle elementari, 154.350 alle medie e 345.933 alle superiori). Ma che scuola sarà per i nostri giovani? E’ davvero un’officina di futuro come deve essere? E’ davvero una palestra di vita e di inclusione sociale, come ogni buon educatore dovrebbe impegnarsi a realizzare? Domande che non si pongono solo i genitori e docenti coinvolti, ma che dovrebbero preoccupare ciascuno di noi in un’ottica di alleanza educativa tra scuola, istituzioni, famiglia e società civile, perché in gioco vi e’ il futuro di tutti.
Va in questa auspicabile direzione il recente documento “La Buona scuola” emanato dal governo ed ora in fase di consultazione pubblica, che riconosce la scuola come “ la leva più efficace per tornare a crescere”. Un documento che auspichiamo possa essere presto accompagnato da azioni concrete.
Con l’arrivo del mese di settembre si accendono i riflettori sul mondo della scuola, ed ecco così emergere le luci e, ahinoi, le tante ombre che caratterizzano lo stato attuale di questo pilastro fondamentale della società.
Risulta quindi necessario, in un momento tanto difficile per il Paese e per la scuola pubblica anche per via della crisi, ricordare che questa istituzione è un diritto costituzionale e un Bene Comune e che la reale accessibilità ad un istruzione di qualità per tutti deve essere un diritto universale e una responsabilità comune, perché solo con un impegno condiviso possiamo davvero promuovere il valore universale della scuola.
Oggi corriamo il rischio che la scuola sia fonte di disuguaglianze perché sempre più spesso per avere un’istruzione adeguata e competitiva sono necessarie costose attività extrascolastiche che creano un divario tra chi se le può permettere e chi no. Ricordiamo che uno studio dello scorso anno aveva rilevato che l’’Italia è tra i Paesi che registrano le maggiori disuguaglianze nella distribuzione dei redditi (secondo l’indice di concentrazione Gini), seconda solo al Regno Unito nell’Unione europea e con livelli di disparità superiori alla media dei paesi Ocse.
Quindi, visto che con la matematica non si può barare, pensate a quanti casi, nella stessa scuola di bambini che hanno tutto il corredo scolastico nuovo e altri le cui famiglie a inizio anno scolastico rischiano il salasso; o a quanti possono raccontare la vacanza studio all’estero e quanti quelli che hanno preso un po’ di sole a Ostia beach.
Come si rifletteva qualche giorno fa durante il convegno dal titolo “Welfare e scuola, inclusione e ruolo pubblico” in occasione della Festa organizzata dalla CGIL di Roma e Lazio al quale ho partecipato, i temi di scuola, welfare, lavoro, inclusione e sviluppo sono strettamente collegati e non possono essere affrontati a compartimenti stagni. Dobbiamo affrancarci da un approccio lineare che risulta miope e adottare un approccio sistemico e di interdipendenza perché le istanze del territorio sono complesse e ci richiedono risposte articolate e concrete.
La scuola, quindi è un bene comune con una triplice valenza:
- Strumento di welfare attivo e di conciliazione famiglia-lavoro in quanto il semplice andarci o non andarci, (specialmente quando riguarda i piccoli) incide profondamente e per tanti motivi non solo sulle famiglie, ma su tutta la società, ricordiamoci che 1/3 delle mamme non rientra al lavoro dalla maternità anche a causa dei posti insufficienti nei nido (il parametro di Lisbona che prevede la disponibilità di 33 posti agli asili nido ogni 100 bambini dai 0 ai 3 anni nella nostra città non è stato ancora centrato) o dell’aumento delle tariffe che incideranno per circa 450 euro in più nelle tasche delle famiglie.
- Strumento di inclusione come luogo privilegiato per prevenire situazioni di devianza e disagio che possono preludere a forme di esclusione e marginalità, che comportano un prezzo altissimo non solo per la vita del singolo individuo ma per l’intera collettività, considerando la prevenzione come un investimento per la sicurezza sociale e per il contrasto della dispersione scolastica. Aspetti davvero fondamentali se pensiamo ai tanti studenti stranieri o portatori di handicap.
Ma la scuola è soprattutto:
- Motore di sviluppo in quanto la scuola è in primis un’officina di futuro perchè forma i cittadini di domani. Purtroppo, dobbiamo fare i conti anche con il tipo di formazione che diamo. Se infatti è vero che dal 2000 al 2012 è aumentato il numero dei laureati (passati dal 11% al 22%) è altrettanto vero che siamo molto lontani dalle percentuali degli altri Paesi basti pensare che un 17enne su 7 in Italia nel 2012 ha abbandonato la scuola (contro il 10% della media OCSE) e che il livello di competenze acquisite dai nostri dottori è equiparato a quello dei diplomati in altri paesi.
Parlare quindi di scuola come officina di futuro ci porta naturalmente a collegarla a temi cruciali come il lavoro e la formazione qualificata.
In un momento di grande difficoltà, la crisi del lavoro si accompagna alla seconda emergenza, quella formativa e della sfiducia, che si manifesta con gli alti livelli di abbandono scolastico e la scelta di non acquisire quelle competenze che risultano essere maggiormente richieste dal mercato del lavoro il quale offre opportunità occupazionali che restano vacanti perché non ritenute “allettanti” dai nostri giovani. Ma parlare di sfiducia vuol dire affrontare anche il problema dei NEET ovvero quel 32% dei giovani tra i 20 e i 24 anni (dati Rapporto OCSE) che, in Italia, non lavorano e non studiano e che secondo il Censis, solo a Roma sono 74.000.
Troppo semplice considerarli giovani “che non hanno voglia di fare niente”, la realtà è ben più complessa e si tinge delle preoccupanti tinte delle occupazioni precarie, mal pagate e dequalificanti che spingono i giovani alla sfiducia e alla perdita della voglia di ricercare.
Un triste fenomeno che riguarda soprattutto tanti giovani alle prime armi. E’ una inedita frattura sociale e del mercato del lavoro che mette in discussione la stessa idea di lavoro professionale, ricco di saperi, fonte d’identità e di autonomia, produttore di bene comune e di coesione sociale, vettore di sistemi universalistici di protezione sociale e di cittadinanza.
Quello del lavoro è da sempre il terreno prioritario di impegno sociale di un’associazione come la nostra e siamo quindi chiamati fortemente in causa per ricoprire un ruolo propositivo e di speranza. Se da un lato dobbiamo creare un percorso favorevole di collaborazione tra istituzioni, scuola, famiglie e società civile, dall’altro siamo chiamati a tornare al territorio con azioni concrete mirate alla formazione e all’informazione.
Dobbiamo innanzitutto insegnare ai nostri ragazzi che il lavoro è una dimensione della realizzazione della persona e non una fonte di frustrazione e sofferenza.
Su questi temi che sono Bene Comune, serve uno spirito di coesione e di reciproco ascolto fra istituzioni, governo, imprese, famiglie, organizzazioni sociali, sindacali e del terzo settore. Tutti dobbiamo avere a cuore il futuro dei giovani che hanno bisogno – oggi più che mai – di un luogo, un’istituzione, anzi, di una comunità che non si limiti a istruirli, a fornire loro delle conoscenze e delle competenze ma che li guidi in un cammino educativo finalizzato alla realizzazione integrale della loro persona. Hanno bisogno di una comunità educante che, invece, negli ultimi anni, sembra aver perso interesse e mordente.
Lo diceva già un antico proverbio africano, magari un po’ inflazionato, ma sempre efficace: per educare un bambino ci vuole un intero villaggio.
E’ una partita a 4 tra scuola, istituzioni, famiglia e società civile e se uno, anche uno solo di questi soggetti rimane indietro o escluso, viene meno il valore della comunità educante e a rimetterci non sono solo i nostri ragazzi, ma l’intero Paese.