È un momento difficile, che non abbiamo mai vissuto prima. Ci sentiamo smarriti, increduli e in ansia. Scuole chiuse, strade vuote e un virus invisibile che sta cambiando le nostre abitudini, il nostro essere nella società.
Ci guardiamo intorno alla ricerca di questo nemico ancora sconosciuto e imprevedibile che nel suo viaggio nella nostra penisola ci sta portando a fare i conti con i nostri limiti, umani e gestionali, ma anche a capire che siamo una comunità che vive di relazioni interpersonali perché siamo tutti interconnessi e interdipendenti.
“Ogni uomo è mio fratello”, le parole di San Paolo VI per la giornata della pace del 1° gennaio 1971, incarnano perfettamente il senso profondo di quello che stiamo vivendo. Adesso che la crisi è in casa ci sentiamo colpiti, in pericolo, vulnerabili perché le immagini preoccupanti arrivano dal supermercato vicino casa, dal paese dei nonni, dalla città dove studia nostro figlio; sono immagini che scuotono la nostra indifferenza, la stessa che forse, troppo spesso, proviamo nei confronti di popoli più lontani che quotidianamente combattono emergenze come questa e anche peggiori non solo sul piano sanitario.
E in questo nuovo contesto dobbiamo imparare a muoverci, a reagire, a non sopperire alla paura, ma a trovare energie nuove per una reazione unitaria, perché se è vero che dobbiamo evitare di stringerci le mani, è invece necessario stringere le interazioni, le sinergie, le maglie della rete sociale.
E’ fondamentale infatti non cedere alla tentazione di “giustificare” una cultura dello scarto che porta a dividere i malati di serie A e quelli di serie B, quelli che siamo pronti ad accettare e quelli che invece non vogliamo e non possiamo. Non dobbiamo mostrare il fianco alla paura dell’altro, ma agire con corresponsabilità prendendoci cura di se stessi e di chi ci è vicino.
Se da una parte dobbiamo rispettare le indicazioni del Governo per evitare che si diffonda il virus, dall’altra dobbiamo dare un segno forte affinché nessuno si senta solo. Proprio la solitudine in questi giorni è un altro nemico da combattere soprattutto per sostenere gli anziani soli, le famiglie in difficoltà, ma anche quell’esercito di invisibili che vivono ai margini delle nostre città.
Abbiamo rimandato alla prima data utile il nostro congresso, il XXVI, momento centrale della nostra vita associativa, ma allo stesso tempo con convinzione non ci fermiamo, siamo convinti, infatti, che in questo frangente le ACLI di Roma abbiano l’obbligo morale di rilanciare il proprio ruolo di corpo sociale intermedio e lavorare senza paura, nel rispetto delle regole, affinché i tanti giovani, le famiglie, le persone anziane che sul territorio di Roma e provincia ci vedano come un punto di riferimento, continuino a farlo con speranza e fiducia.
In questi giorni stiamo proseguendo il lavoro silenzioso per il recupero del cibo e del pane da donare alle mense sociali, i nostri telefoni continuano a squillare e tanta gente ci chiama per avere conforto, sentire una voce amica con il terrore di perdere quella quotidianità che, diciamolo, ci garantisce una certa serenità. C’è bisogno di sentirsi vicini anche se fisicamente non lo possiamo fare. Certamente i social possono rappresentare uno strumento di contrasto dell’isolamento e aiutarci ad abbattere quella barriera alzata tra le comunità a causa del virus.
Ma tutto questo oggi è minacciato e per questo motivo chiediamo di istituire da subito un tavolo che preveda la partecipazione anche delle associazioni del Terzo Settore, che per loro natura sono per la gente e soprattutto in mezzo alla gente. Lavorando tutti insieme e remando nella stessa direzione possiamo lasciarci alle spalle questo momento difficile e riprendere a vivere le nostre vite come facevamo fino a poche settimane fa, più consapevoli dei nostri limiti, ma più forti e coesi come comunità.